Due giorni sul Cammino Materano

Le antiche vie della Sicilia
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Sulla Murgialonga
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Ore 18:14, Bari. Treno del ritorno.
Ci allontaniamo dalla stazione, apro Amore liquido del vecchio Bauman e mi annuso le dita. Odore di terra, di erba d’autunno. Di strada!
Ho un dolore al ginocchio che mi entra dritto allo stomaco.
Torno tra le mie montagne. Un’ora fa ero sulle Murge. Mezz’ora fa sulla nuova lingua di asfalto che collega Matera a Bari. Una strada a più corsie presa e incollata in un posto che per dimensione e natura non c’entrano.

Ore 19, Bari. Treno dell’arrivo.
Angelofabio Attolico, quel cocciuto di In Itinere, viene a prendermi in stazione per andare a Crispiano.
Archeologo, camminatore, innamorato della sua terra. Assieme ai suoi due amici Lorenzo Lozito e Claudio Focarazzo riprendono le tracce delle antiche vie che dall’Oriente portavano a Matera per permettere ai viaggiatori moderni di ripercorrerle: la via Dauna, la via Sveva, la via Peuceta, e la via Ellenica.
Crispiano. IProsumer. Una comunità fondata da Marcello Carrozzo e Mino Marangi. Uno spazio di lavoro multifunzionale: laboratorio di stampa 3D, punto vendita, social factory, orto biodinamico, ostello. Uno splendido ostello con camino dove ci fermiamo a dormire.

Cena a La Cuccagna. Bombette con pancetta dorata e vino Pizzichicchio, il soprannome del brigante Cosimo Mazzeo che aveva il suo quartier generale a Crispiano, conosciuto anche per aver lottato assieme a Carmine Crocco e Ninco Nanco. Liquore al finocchietto per aiutare le interiora a smaltire la cena luculliana e via, a casa. Domani sveglia prima dell’alba!
Quando di un posto si riesce a dire: “Adesso che andiamo a casa” o “Quando torniamo a casa”, hai la risposta: quel posto è casa. È tuo. Quel posto è nella lista delle tue case sparse nel mondo.

Crispiano, ore cinque. È buio. Il maestrale mi taglia gli occhi. Ci incamminiamo verso la stazione per prendere il treno che porta a Martina Franca, dove comincia il viaggio. Alzo gli occhi per non fare entrare le lame di vento e mi si punta avanti la cintura di Orione, mi volto verso destra e la mezza luna è come un faro per l’anima. Avrò un’ora di sonno, sarà dura oggi. Ci aspettano ventisei chilometri.

Martina Franca. È mattino. La rugiada si appoggia sulle teste degli uomini e il biancore del centro storico è acquietante. Colazione, e si parte!
Via Ellenica, da Marina Franca a Crispiano. Siamo in piena Valle d’Itria, la valle dei trulli. A nord abbiamo l’altopiano delle Murge e a sud il mare di Taranto, a meno di cinquanta chilometri. Lo Ionio, quella distesa di acqua salata che separa l’Italia dalla Grecia.
«Per prenderti il bello devi prenderti anche il brutto!», dice Angelofabio. L’uscita dal centro abitato è squallida, il cemento è ovunque, anche dove si poteva evitare.
La strada è piena di toppe, teniamo un buon passo. Il cielo sembra aprire una speranza di luce gialla. L’aria è umida. Da lontano si vedono i primi muretti a secco con le pietre della Puglia del sud. Rincuorano, vuol dire che manca poco alla campagna.
Coni di trullo a destra e a sinistra e terra rossa che si va a urtare con il verde smeraldo dell’erba e il bianco della pietra.
L’asfalto cede la strada al sentiero, poi ritorna per un’altra ora. E per tutto il giorno si fa via ghiaiosa. Entra nel Bosco delle Pianelle e lo attraversa per almeno cinque chilometri.
L’erba sotto le nostre scarpe è di colore fucsia con sfumature viola di ciclamino. Dico di stare attenti a dove mettiamo i piedi: sono in ogni centimetro quadrato di terra.
Il sole comincia a scottare sulle braccia, i raggi segano le chiome dei lecci che formano uno strato atmosferico sempreverde e inglobano il bosco con noi dentro.
«Arriviamo all’albero del brigante e mangiamo», dice il capobanda. Una banda oggi formata da due camminatori. Quando il bosco comincia a essere più fitto, e il giallo della luce più lontano, solo allora davanti agli occhi si apre il grande tronco secolare delle pianelle, un mostro di meraviglia, che ai suoi piedi apre un nascondiglio in cui tutte le creature della terra possono trovare riparo. Come fece quel brigante, il Sergente Romano, durante le sue scorribande. E insieme a lui anche quel tal Pizzichicchio passò a setacciare i punti strategici della resistenza preunitaria.
Pranzo all’ombra dei ciclamini e riposo del viandante.
Mancano undici chilometri, un paio per uscire dal bosco. Ci rimettiamo in cammino.
Il fogliame d’autunno lascia il posto al sentiero, e a mano a mano che le vie collegano i paesi, ricompaiono l’asfalto, la ferraglia dei guardrail, le macchine che sfrecciano.
L’ultimo tratto fino a Crispiano è fuoco e cemento: cambio lato del cammino, vado a destra a cercare l’ombra. A ogni passo, dei cocci vecchi abbandonati ai margini della carreggiata.
Il vento che arriva fresco sul collo alleggerisce la testa bollente. Il verde scompare ma non del tutto, cede all’invasione delle case, delle reti, dei cancelli.
Manca poco per arrivare in paese. Il sole è quello bello delle tre di un pomeriggio d’autunno. Crispiano, il cartello di entrata.

Prossima tappa, Altamura.
Da Crispiano ad Altamura finiamo sulla via Appia. Siamo in macchina.
Si può fino alla noia sostenere che i viaggi a piedi facciano vedere il mondo nelle sue polveri più nascoste, ma su quattro ruote io il mondo lo vedo come se mi stesse scorrendo su di una pellicola. Il paesaggio cambia colore e produce dissolvenze, la strada, gli alberi, i muretti a secco, il deserto di colore amaranto. Come se a piedi ce li hai troppo vicino e non riesci a comprenderne la bellezza.

Altamura, città dalle alte mura. Del pane alto, del Neanderthal di Lamalunga, del pulo. Terra dei Peuceti.
Raggiungiamo in piazza Lorenzo, Giovanni Fratusco e la sua splendida compagna, Anna Fiore. Altamura è piena di gente il sabato sera. È grande! Ma non chiassosa.
Pein assutt, un’antica osteria che porta il nome del pane. Pane asciutto. Una grotta bella. Non c’è spazio del soffitto e delle pareti che non siano dipinti dai commensali. Ogni viandante che passa di qua deve lasciare il suo pensiero.
Buon vino, peperoni piccanti, lampascioni, zuppa di cicerchie, con la firma del Padre Peppe, il tipico liquore alle noci, una vera sfida da queste parti. Ogni famiglia ha il suo strumento per prepararlo e la sua ricetta. E nessuna si rivolge a un’altra anche solo per farsi prestare un ingrediente. Diventa una questione di vita o di morte, di orgoglio, di autenticità. È un fatto antropologico.
Il banchetto serale finisce a Stupor mundi, da Anna. Un bel posto un po’ più in là del centro storico per dormire sonni pieni di speranza.
Crostata alle ciliegie con burro naturale, mele cotogne, caffè. E via! Di nuovo sulla strada.
Da Altamura a Gravina in Puglia, via Peuceta.
Oggi il cielo è pulito dal mattino. Abbiamo venti chilometri davanti.
L’uscita dal paese è sempre poco piacevole, oggi non servono le mappe: la strada è segnata con il verde e con il giallo, i colori del Cammino Materano.
Il percorso da Bari a Matera è segnato per intero. Non ci si può sbagliare. Marciapiedi, pali, alberi, bidoni arrugginiti abbelliti dai simboli grafici che tracciano la via.
Cammino con Lorenzo, dopo che mi ha infasciato il ginocchio e detto più volte di fermarmi. Ma continuo, molta strada si fa con la testa più che con i piedi.
Mi volto e vedo il cemento ormai lontano, la terra di Puglia prende corpo. Pare terra del Vesuvio, solo un po’ più rossa. Ma la polvere che alza è la stessa.
Orti coltivati a pomodorini e topinambur. Ci fermiamo con i contadini, padre e figlio, che stanno facendo il raccolto.
Più avanti, segnano la strada gli alberi di noce e di mandorle, che conservano ancora qualche frutto per quelli che passano.
Un trullo in lontananza, nel bel mezzo della terra scarna, gialla di grano d’estate, che aspetta la sua redenzione.
Giovanni e Anna tirano fuori la focaccia di semola di Altamura. Finiamo a banchettare sotto i mandorli sul margine del sentiero. E quando riprendiamo, ritrovo un pezzo della mia terra in Onofrio, storico di mezzo sangue pugliese e mezzo sannita. Anche lui un cocciuto della famiglia In itinere.
Mancano pochi chilometri alla fine, si capisce perché i tratti di ghiaia si alternano a tratti di asfalto. Il sole è resistibile. Ci sta bene sulle braccia e sul viso.
Quando scorgiamo Gravina all’orizzonte ci raggiunge Angelofabio e camminiamo tutti e tre fino alla fine della tappa. Sogniamo nuove vie, si parla di Annibale, il grande condottiero dell’antichità, del futuro del Cammino Materano.

«Ciao! Stai tornando da un trekking?», mi fa un tipo sul treno del ritorno.
«Sto tornando dal Cammino Materano!», gli rispondo.
«Lo conosco!»
«Davvero?»
«Sì, ho fatto una tappa della via Dauna che da Lucera porta a Matera».
«Wow! Adesso chiamiamo l’archeologo e glielo diciamo!»

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