Sulle vie per San Martino

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Domenica. Sole pallido, la nebbia agli irti colli.

L’estate di San Martino, il giorno dopo.

Borgo di Fragneto L’abate, a forma di cuppino – mestolo – dice Emilio.

Emilio, novantadue anni, ex tabaccaio. È seduto sotto la torre dell’orologio, con gli occhi chiari stretti alla luce del sole e la sciarpa al collo per proteggersi dal maestrale. Facciamo controvento il centro storico con il tocco delle sue francesine nere.

«Il giorno di San Martino si lavorava e la sera si faceva la pizza con le alici», è l’unica cosa che dice sulla tradizione, perché si vede che a Emilio piace osservare i paesaggi: «qua, siamo a cinquecento metri di altitudine e sotto al paese passa il fiume Tammaro che va a finire nel Calore, a valle. Ancora più in là, passa il torrente Tammarecchia… ».

Ci troviamo a cavallo tra la valle del Tammaro e la valle del Fortore, estremo est della Campania. Nord-est.

Fragneto L’abate, torre d’avvistamento. Il Molise e la Puglia oltre l’orizzonte.

Attraversiamo a passo di gallina il centro storico, rallentati dal vento che fa resistenza, e per ogni casa Emilio racconta di chi l’ha abitata un tempo.

Spuntano le prime braccia massicce di donna che preparano i fritti da mangiare in strada. Raggiungiamo Maria Cioffi, Maurizio Melisce, Francesca Rispoli, Emanuela Repola, Mario De Nicolais, i cinque dei Sapori de L’Abate.

«Siamo un paese di mille abitanti, il progetto della nostra associazione è fare impresa qui, portare posti di lavoro. Ci siamo concentrati sulla memoria, sulla identità, sul viaggio che i contadini facevano, partendo dalle terre che lavoravano, fino alle dimore dei propri signori», dice Maria Cioffi, professoressa di filosofia.

La pizza di San Martino è la cosa che tengono più a cuore da queste parti.

Farina, acqua, olio extra vergine, alici: un alimento povero, di semplice preparazione: impasto, cottura. Senza riposo, proprio come il viaggio dei contadini che giungevano alla chiusura della stagione estiva consegnando le messi e il vino novello ai proprietari terrieri. Che spesso erano gli abati.

Castrum farnitum – farnitum come farnia, quercia – era sotto lo Stato della Chiesa, nel feudo di Santa Sofia di Benevento. Proprietà di un abate, che dà il nome al borgo.

E gli abati portavano le alici al paese. Le davano in dono ai preti del posto, che poi, in qualche modo le distribuivano.

Il vento si calma e l’odore di fritto impregna l’aria, come per chiudere un’abbondante estate prima del nuovo solstizio.

La strada che porta alla torre dell’orologio si svuota, non vedo più Emilio, ma alcuni giovani in abiti medioevali che raccolgono dei cachi da un albero e offrono casatielli – panzerotti ripieni di uova e formaggio – ai passanti.

Il sole si nasconde dietro alle nuvole di passaggio, aperitivo dell’abate con aglianico del Sannio e pizza con le alici. Mentre Gli impiccati preparano zuppe di ceci con zampa di maiale e patate sotto la cenere.

Accenti indigeni e accenti cittadini, accenti venuti da lontano, e accenti indigeni emigrati che ritornano a casa, nel freddo pungente che arriva poco prima del tramonto.

I bambini si divertono con i giochi antichi, è l’istinto della esplorazione che li aiuta a giocare a qualcosa che ha un meccanismo passato.

Uomini impazienti che aspettano il gioco della botte attorniati dalla tifoseria familiare.

Ritrovo Emilio! La mia guida, oggi.

«Due uomini devono rotolare la botte fino in piazza, una volta arrivati la mettono in verticale e la fanno girare attorno a se stessa e poi tornano indietro. È una gara per vedere quanto tempo ci vogliono a fare il giro. Vince chi ci mette di meno», mi spiega.

Come spingere una botte in orizzontale, su una via dritta e lastricata, con quattro mani. La forza della collaborazione, la cooperazione. L’equilibrio. L’energia del ludico nel sociale. Svago e aggregazione per i contadini che si fermavano a sera, dopo il lavoro nei campi, e scoperta per l’uomo moderno. Appartenenza. Identità. Essere parte di un tempo, di uno spazio di vita. Sentirsi ancorati a una radice.

Voci e suoni della memoria prolungano il tramonto sotto la torre dell’orologio cucendo nel cielo un soffitto onirico blu notte con sprazzi di viola.

Un vecchio e barbuto menestrello accompagna con la musica le facce buffe degli artisti chiamati all’intrattenimento. E i viandanti ammutoliti si fermano a guardare.

San Martino, gli affreschi di Giotto, le costellazioni, il solstizio, il sole e i pianeti: fili della trama di un viaggio che percorre l’itinerario di un cerchio: dalla terra alle strade del mondo, e via via sempre più lontano finché non si assottiglia quel senso di identità che mette in allarme l’uomo, costringendolo a rimettersi sulla strada del ritorno. Seguendo le briciole che per distrazione ha lasciato lungo la via.

Perdo Emilio! Per la seconda volta. È buio, la sua carnagione chiara dovrebbe spiccare. Ma niente. Anche l’odore di fritto è sfumato nella notte. Il vento si rialza e taglia gli zigomi.

Riprendo lo zaino e la strada del ritorno.

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